Simona Baldanzi

IN MEMORIA DI PIETRO MIRABELLI

www.pietromirabelli.it
“Pietro non ne uscirete se non lo volete tutti insieme, qua...come nei cantieri. - Eh...- sospira Pietro mentre guarda verso la Sila. E lo sento che si allontana, che mi sfugge, che mi sta lasciando sola mentre non trovo riparo neanche nella bellezza di un albero in fiore che ho di fronte.”
(Figlia di una vestaglia blu, 2006)

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RASSEGNA STAMPA
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il Mugello è una trapunta di terra

Un sogno così non sarebbe tornato mai più

di Simona Baldanzi

«Ero stanca del Mugello, di questa terra-cantiere che si trasforma per rimanere sempre come è. Una terra di transito, stronza, senza carattere. Non ne potevo più di difendere qualcosa senza colonna vertebrale. Difenditi da sola. Questo, alla fine, le volevo dire, andandomene, come quando si sbatte la porta e si dicono cose forti e ridicole. Poi ci torni, vinta. La terra ti sta sotto le unghie, ti sta negli occhi e non va via. Decidi pure di fartela a piedi, di stare con lei per interi giorni di fila. Lechiese, i boschi, la scuola di don Milani e la tomba di Dossetti, le torri e gli orologi, le burraie e le cave, i morti di guerra e sul lavoro, i mobilifici e le fabbriche dismessi,le colline di tanti verdi che mi calmano, le montagne che paiono dorsi di animali preistorici. Riecco il Mugello. Un passo alla volta.»

Quando arriviamo in cima sento che olfatto, udito e vista sono sparati al massimo, come se fossero tutti al limite del giro della manopola, come se il sudore avesse oleato tutti gli ingranaggi e ora abitassi un corpo perfettamente funzionante. Quello che vedo non si può guardare tutto insieme. Mi giro tutto intorno. Vedo il lago che si insinua con le sue tante lingue azzurre ai piedi delle montagne, vedo Barberino e lo riconosco nella sua forma, nelle sue case e strade anche se piccole e lontane, vedo le colline intorno e girando con gli occhi, quelle coltivate come ritagli di stoffa e quelle solo verdi, di un verde tutto suo, di tanti verdi che mi calmano, come mentine magiche. Fra i verdi, fra le onde di sfumature brune, poi tenui, poi brillanti, poi sbiadite, vedo una roccia a forma di triangolo che spunta su un punto più chiaro di tutti. Sembra la pinna di uno squalo. Mi ci fermo con gli occhi un attimo di più e capisco cosa è. È il cimitero germanico sul Passo della Futa. Domani ci andremo, ma visto da qua, come una piccola spina che spacca i verdi, lo sento pungere dentro. Non mi pare ancora possibile che possa davvero raggiungerlo a piedi.
Sergio tira su una delle bacchette e, come fosse un lunghissimo e raffinato dito puntato, spostandosi da sinistra, comincia a darmi i nomi: Monte Vigese, Montovolo che svetta dalla valle del Reno, poi, più vicini a noi, Monte Freddi, Sasso di Castro, Monte Beni, l’Alpe di Monghidoro, Monte Canda, Monte La Fine e poi la valle del Santerno. Il Santerno è il fiume che si insinua nella valle di Firenzuola, che ha raffrescato molte delle domeniche agostane di chi non aveva troppi soldi per stare tutta l’estate al mare. Insieme ai miei con la borsa frigo e i materassini sottobraccio guadavamo il fiume. Gianni ed io, con le scarpette di plastica rosse e blu, appoggiavamo le mani sui sassi per cercare di non cascare in acqua. Per un attimo anche da lassù sento la corrente fresca che mi passa fra le gambe e i sassi scivolosi sotto i piedi.
Sento la rabbia che provai a leggere tutta la rassegna stampa sulle fonti, le sorgenti, i torrenti e i pozzi andati perduti per via dei lavori del tav. Era come se avessero preso tutte le foto con l’acqua a Badia a Moscheta, quelle della Valle dell’Inferno, quelle di Luco e Grezzano e le avessero ridotte in briciole. Prova a bruciare tutte le tue foto d’infanzia e prova a non averne di nuove per il futuro. Non saprei in che altro modo spiegarlo, a Giovanni. Avevano cambiato per sempre un intero sistema idrogeologico e noi li avremmo perdonati di nuovo.
Risento la voce di Sergio. Ancora più in là all’orizzonte le cime dell’Appennino come il Cimone, il Corno alle Scale, la Nuda, il Monte Gennaio. Ora ho proprio l’idea di vedere tutto. Siamo quasi sul Monte Gazzarro. Dico quasi perché la croce di ferro rugginoso che sfuma sull’arancio sporco con ai piedi un muretto sui tre lati, è posta appena sotto, in modo tale che da qua, si possa davvero vedere tutto. Le croci talvolta non stanno proprio sulla cima, ma nel punto più panoramico.
Sergio, Marinella e gli altri appoggiano bacchette e zaini. Sfilo il mio dalle spalle e immediatamente, per il peso tolto, si alzano in un gesto di fierezza e sollievo. Questo viaggio dura da giorni, ma ogni volta che appoggiamo zaino e bacchette è sempre un arrivo. È un continuo finire e cominciare e ora, qui, sul Monte Gazzarro, sto come una spugna strizzata che sta tornando a gonfiarsi, come se fossi stata prosciugata dalla salita e dalla fatica e adesso mi riempio di nuovo di liquidi, di colline, di vita.
Sergio mi chiama dai muri intorno alla croce arrugginita. Sta in piedi davanti al tavolo di pietra e sopra al tavolo c’è una scatola metallica. Sergio solleva la lastra di pietra che blocca la scatola e così posso leggere cosa sta scritto sul coperchio: libro vetta monte gazzarro 1.125. s.l.m. Dentro al libro di latta ci sta un quadernone a righe e alcune penne. Sergio ne prende una, sfila il cappuccio e me la passa senza dirmi nulla, e anzi fa un passo indietro e mi lascia lì da sola a sfogliare quel quaderno. Leggo date, nomi, pensieri di persone passate da qua, che ci sono arrivate camminando. Moltissimi scrivono da dove vengono e dove vanno. È tutta lì la forza del camminare: sapere da dove vieni e dove devi andare e tenere insieme le due cose. Perché nella vita di tutti i giorni non è così scontato? Scrivo anch’io la data e poi «Da Barbiana a Monte Sole» e poi il mio pensiero: «Le trapunte di terra da quassù mi scalderanno sempre. Caro Mugello mantieniti in forma». Mi firmo e passo la penna agli altri.
Mentre aspetto, guardo ancora intorno e poi questa croce arrugginita. Le croci spoglie sulle cime mi emozionano sempre un po’. Sento il potere della vetta, il bisogno umano di metterci un segno, visibile e forte della bassezza umana, del nostro non essere niente nei confronti di quello che ci circonda, del portarsi dietro fardelli e penitenze, di avere qualcosa da scontare, come se fossimo tutti colpevoli e, nell’esserlo, tutti simili. Le croci in cima ai monti stanno lì a ricordarci i segni evidenti sui nostri errori. Gli errori di popoli, di terre, di imprese. Anche nella storia dell’Emmelunga ce ne sono stati. Ce ne hanno raccontati molti.
Quando hanno cominciato a ingrandirsi, ad aprire negozi ovunque, hanno fatto alcuni grossi errori. Per prima cosa cominciarono a esternalizzare i magazzini. Non c’erano dipendenti diretti a capo dei magazzini sparsi per l’Italia, ma li avevano dati in gestione tutti a cooperative, magari anche grosse e con personale preparato, però Emmelunga si trovava in quella fase nel mezzo, di crescita, ma anche di sbandamento, per cui non riuscivano proprio a gestire questi pezzi staccati da sé. Le prime crepe si sono viste lì, dando in gestione rami d’azienda a persone non troppo raccomandabili.
Una volta Alessio s’è trovato a gestire un fallimento di un negozio di Milano. C’erano dei brutti ceffi che non volevano uscire da questo magazzino, c’era da prendersi una coltellata. Doveva cercare di mediare, avevano firmato i contratti, lavoravano per Emmelunga e per un’altra ditta. C’era questa impiegata, una croata, una fica spaventosa che l’avevano messa proprio per abbindolare e distrarre il dipendente inviato da Emmelunga. Alessio lì per lì non l’aveva capito. Il primo giorno prese venti caffè pur di stare con quella ragazza bellissima: c’era cascato in pieno. Dopo quella missione capì che o ti affidi a persone di cui ti fidi per dare un appalto, oppure devi inserire qualche dipendente diretto che controlla tutto.
Un altro grande errore che commisero, secondo alcuni dipendenti, fu la vendita del negozio nella piana fiorentina, quello che si vedeva dall’autostrada, il più bello, il più strategico. Da un giorno a un altro, chiusero quello e ne aprirono un altro a Peretola. Perché lì? Lo volevano accanto a Ikea. La stessa mossa l’avevano fatta a Milano: avevano aperto a Paderno perché era a 700 metri da Ikea. Per molti il grande errore fu appunto quello di inseguire Ikea. Però o segui un filo logico o ne segui un altro. Se segui Ikea, è sbagliato il prodotto che hai all’interno, è sbagliata l’organizzazione. È sbagliato tutto, perché la fortuna di Ikea non sta tutta nel dove mette i suoi negozi. Quando qualche cliente ha un problema con Ikea a chi si rivolge? Quando esci dal negozio a Firenze, hai lo scontrino in mano e zac, magia, loro ti sono andati in culo per sempre. Ti devi rivolgere a una ditta di logistica esterna. Se hai problemi dopo l’acquisto, non parlerai più a Ikea, parli a qualcun altro. Il marchio Ikea non lo vedrai più sui fogli che ti faranno. Non avere il cliente che ti torna indietro è un bell’appalto: una bella grana che ti sei tolto di torno.
L’Emmelunga non era organizzata certo così. A Emmelunga poi piaceva apparire più grande di quello che era, mentre il segreto di Ikea è quello di sembrare più piccola di quello che è. Il piccolo è rassicurante. Lo stanno capendo anche i grandi centri commerciali. Li stanno ridimensionando, perché la gente con i carrelli si perde e non vuole questo, non vuole sentirsi smarrita. Ikea vuole apparire piccola, ma è un gigante: 338 filiali in 41 paesi, diffonde 212 milioni di copie del catalogo, vende 45 milioni di esemplari di librerie Billy nel mondo, fornisce 50 milioni di chiavi a brugola con cui i clienti si montano i mobili della casa pezzo per pezzo. Ikea sembra piccola, ti dà del tu e ti dà pure le viti e ti dice: montalo da te. Diventi parte dell’impresa, l’ultimo operaio della catena e ti senti pure contento perché lo fai da solo, perché ce la fai da solo. Ma sai cosa c’è dietro la chiave a brugola? Ha delle scanalature che permettono un risparmio di 120.000 euro l’anno. Poi hanno dato i nomi ai mobili. Nomi impronunciabili, ma tutto è strategico. Ti ricordano le foreste del Nord, il legno, la calma, la pace. È un marchio che sfrutta la fama del suo paese, ne ha preso persino i colori della bandiera, il giallo e il blu.
Pure l’Emmelunga si è rifatta il colore e ha preso proprio il blu e il giallo. Arrivare a Barberino e vedere quel capannone immenso giallo e blu era un pugno nello stomaco. Ma non bastano certo i colori per imitare qualcuno. In effetti Emmelunga ha provato a imitarli anche nel confezionare scatole cinesi, a giocare con altre aziende come affiliate e controllate, ma all’Emmelunga è stato il caos, invece all’Ikea ha portato un risparmio di circa 150 milioni di euro di imposte l’anno. E sì, diciamolo, Ikea ha ucciso definitivamente una figura che ha fatto la storia di Emmelunga: il venditore.
Da Ikea trovi i commessi perché i mobili già si presentano da soli. Dietro ai mobili ci sono designer, freelance, product manager. Hanno ideato la borsa che te la metti al collo e lascia le mani libere, così sei invitato a comprare di più. Hanno messo i ristoranti nei loro negozi: hanno capito che, dopo il passaggio in cassa, quasi tutti i clienti sono stanchi, affamati e di cattivo umore. Allora diamogli un biscottino allo zenzero o una polpettina. Niente è per caso. Tutte le idee vengono discusse, confrontate e verificate. Nessun capo negozio ha la libertà di sperimentare, mica come succedeva all’Emmelunga dove ognuno faceva a modo suo. Inoltre studiano le vite delle persone. Nel catalogo non c’è la famiglia da Mulino Bianco. Ci sono madri da sole con i figli, ci sono padri soli con i figli, ci sono studenti, ci sono single. Insomma c’è la vita reale e i suoi bisogni. Lavorano molto sull’immagine di convenienza, di solidità e di impegno sociale. Certo che poi hanno problemi di deforestazione, di risparmio energetico, di smaltimento di rifiuti, di condizioni di lavoro dei fornitori di tutto il mondo non proprio etiche, ma non c’è dubbio che Ikea arreda le case di tutto il mondo.
L’abitare alla svedese è diventato globale. Ikea si sta pure ponendo il problema di arredare case tutte uguali e quindi studia possibilità di personalizzazione. Sta inoltre investendo in attività immobiliari di dimensioni stratosferiche come l’East End londinese dove nel 2020 dovrebbero sorgere 1.200 unità abitative, 85.000 metri quadrati di uffici e negozi, un albergo da 350 posti letto. Nel 2002 Ikea fatturava 11 miliardi di euro, dieci anni dopo 27.
Come poteva Emmelunga inseguire Ikea spostando i negozi e dipingendosi la faccia di giallo e di blu? Emmelunga non riusciva più a camminare, a tenere insieme da dove veniva e dove sarebbe voluta andare. D’improvviso veniva dal vento rapita e non si accorgeva che un sogno così, come quello di Ikea, non sarebbe tornato mai più.

Simona Baldanzi, Il Mugello è una trapunta di terra. A piedi da Barbiana a Monte Sol

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