13 maggio 2014 Post su Fb
Davanti al carcere di Prato, la gente corre. Non che scappa, corre. Passano solo persone che corrono. Con le cuffie, col cellulare fasciato su un braccio, col sudore che cola. Passa di lì perchè più avanti raggiunge la ciclabile. Scendo dalla Panda e Marzia dal suo furgoncino. Lei ha in mano un’arancia, io ho appena finito il mio pezzo di schiacciata. Tutte e due abbiamo finito il turno al call center. Io sono qua per la settimana della letteratura in carcere, lei per riprendere le prove di teatro. Si chiacchiera un po’ sul marciapiede. Al vetro entrambe lasciamo il documento. Ci salutiamo lì, perchè il direttore alle mie spalle chiede se sono io la scrittrice e quindi mi prende sotto custodia. Nel suo ufficio, sul suo tavolo, noto il nome cinese di uno degli ultimi arrivati, nella scheda di entrata. Classe di età 1990. Parliamo, perchè sono notevolmente in anticipo: mi sono mossa prima perchè so che in carcere ci vuole sempre un po’ più di tempo, per entrare, per sistemare. Lui sorride. Mi dice: L’ho chiamata un po’ di volte stamattina, ma non ha risposto. Ecco, era lei col numero privato! Gli rispondo: quando sono a lavoro non posso rispondere. Che lavoro fa: un part-time in un call center. Ah! dice piano lui. E così partono i racconti. Anche lui si è laureato in Via Laura, ha fatto il concorso e ora sono 20 anni che fa il direttore di carcere. “All’inizio non sapevo a cosa andavo incontro. Ora faccio di tutto, qua dentro devi fare di tutto”. In carcere ci sono i corridoi e le porte che si aprono con una lentezza incredibile. A me ogni volta, viene voglia di forzarle, aiutarle ad aprirsi. Mi innervosisce quella lentezza. Dopo un po’ di corridoi dove ho già perso il senso dell’orientamento, arriviamo all’area biblioteca-musica-teatro. Sono già lì che mi aspettano. Due ore e passa con i detenuti. Sono quelli che stanno cercando di prendere la licenza, elementare, o la media, o la superiore. Il direttore orgoglioso, mi aveva detto, che negli anni, ben 19 si sono laureati. Mi ascoltano con un’attenzione costante. Mi “sbucciano” di domande e si confrontano fra di loro e con me e col direttore e con i loro insegnanti. Ci prendiamo su un sacco di cose. Un botta e risposta fitto, fitto. La società, il carcere, le difficoltà, la vita fuori e dentro, i pregiudizi. Luoghi comuni da abbattere e nelle difficoltà a farlo, ci si può sentire simili. Nessuno teme a alzarsi e prendere la parola. Mi colpisce questo. Non c’è da rompere il ghiaccio, non c’è niente da perdere, ma tutto da guadagnare. Non so quante volte mi dicono grazie. Gli piace scrivere, meno leggere: no, vi prego, non fate come quelli che stanno fuori! Tutti vogliono scrivere e pubblicare e nessuno leggere. Ridono. Gli leggo un pezzo. Uno mi dice: si sente però che leggi tanto eh?! Dico grazie. Tutti mi stringono la mano. Uno dei detenuti si ferma davanti a una finestra aperta che fa muovere una tenda: ci gioca, fa un respiro profondo, poi segue il secondino e va verso la cella. Li saluto. Nel corridoio il carrello della cucina porta tante uova, uova, ancora uova. Cosa mangeranno stasera? Riprendo le mie cose nell’armadietto, saluto il direttore, saluto una poliziotta che vedendomi un po’ smarrita mi accompagna all’uscita. Riprendo il documento. Fuori si è alzato il vento e fa freddo. Ho freddo. Ancora gente che corre qua fuori. A passo svelto raggiungo l’auto. Ho una gran fame. Ripenso a quelle uova su quel carrello. A chi mi ha detto, è importante che là fuori sappiano di noi. Lei scriverà di noi? Che sì, siamo delinquenti e sì che abbiamo sbagliato, ma ripassa il treno per noi? Ripassa, vero?
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